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A Milano in carrozza
Mio padre ha fondato Villalta che poi è diventato il nome di tutta questa zona di Pontesesto, io
comunque sono nato a Rozzano nel 1915, più precisamente a Gambarone.
Eravamo allora abbastanza isolati e c'erano solo tre aziende agricole: Villalta, Pontesesto
vecchia e Gambarone, ma per avere degli influssi milanesi bisognava spostarsi con difficoltà
perché c'era solo una strada in mezzo ai campi.
Noi qui eravamo a Ponte Sesto quasi più vicini a Milano, le notizie e le vicende di Rozzano non
ci riguardavano, non ci toccavano, qui facevamo e facciamo ancora vita un po' isolata, siamo
alla periferia, tanto che noi ci riferiamo più a Milano che a Rozzano, basti pensare che qui noi
tutti andavamo da piccoli a scuola a Milano.
Io ricordo che avevo cominciato a andare a Milano con la carrozza con i cavalli.
Baratti con il murnet
C'è stato un cambiamento radicale rispetto al passato: adesso la cascina viene condotta da due
persone. Certamente una volta la vita non era facile, il salariato prendeva un po' di soldi e poi
aveva il riso e il grano che faceva macinare dal murnet, il proprietario del mulino. C'era una
specie di baratto: davano per esempio un chilo di farina al prestinaio e il prestinaio dava un
chilo di pane, la farina che avanzava era il guadagno del fornaio.
Le scuole erano qui, in quella che adesso si chiama Piazza Nenni, a Rozzano vecchia. Venivano
a piedi da tutte le cascine, era un sacrificio perché erano due o tre chilometri, quando pioveva,
quando c'era il gelo e la neve, scendevano trenta-quranta centimetri di neve; in famiglia poi
dove c'erano parecchi bambini con un solo lavoratore nell'agricoltura, gli abiti venivano rivoltati
più volte, il cappotto non lo aveva quasi nessuno, andare a piedi nudi per i bambini era
normale, a pie biott .
Io sentivo da mia nonna, che è nata qui alla Barneggiata di Rozzano nel 1865 e da mia
mamma, dei grandissimi sacrifici che facevano le mondine, alcune veniva da fuori però molte
ai tempi erano di qui, era una lavoro spaventoso, non avevano nemmeno gli stivali, lavoravano
solo la mattina perché il pomeriggio con il sole era impossibile per le zanzare, i tafani, le
Io ricordo che, specialmente quando c'erano le mondine, arrivava un uomo con l'organett,
suonava a mano e le mondine ballavano, si divertivano, era un lavoro faticoso ma erano
sempre contente cantavano, ballavano. Loro andavano fuori il mattino presto alle cinque e poi
facevano una piccola sosta e nel primo pomeriggio rientravano, andavano a riposarsi e poi la
sera facevano baldoria. Poi c'erano le squadre di uomini, i taglia riso, che iniziavano in autunno
e finivano a novembre, era un lavoro duro, faceva freddo, la maggior parte venivano da
lontano anche se c'era qualcuno di qui.
Le case che seguono la statale dei Giovi sono state fatte dai francesi della ditta Chevallard, gli
operai avevano bisogno delle case per cui le hanno costruite; altri che non abitavano lì
venivano da Lacchiarella a piedi, anche le ragazze di dodici anni, perché il Gamba de legn, il
tram, arrivava solo a Badile, quindi la facevano a piedi, alcuni uomini venivano anche da Gudo
Gambaredo. Poi nel 1929 hanno costruito altre case, c'erano anche famiglie da Moirago che
lavoravano qui e si sono trasferite.
Nella casa dove abitavo io, in fondo c'era un bel pezzo di terreno e due appartamenti riservati
alle suore dove hanno ricavato un asilo per gli operai dello stabilimento della Societé
Anonyme; l'asilo è nato nel 1911 ma solo nel 20 l'hanno trasferito in quegli appartamenti e c'è
stato fin verso il 1985; poteva iscriversi chi voleva ma era nato esclusivamente per gli operai
della ditta, le mamme magari andavano a lavorare e allora i bambini li portavano all'asilo: una
comodità enorme!
Dove c'era il comune c'erano due palazzine in piazza Nenni, la prima era la scuola: c'erano
quattro elementari, c'era la signora Mussi, la signora Arrigoni, la sigorina Corti Angelica, la
Mussi era proprio di Rozzano, le altre di Milano, e ci imponeva tanta disciplina, ci comandava a
bacchetta, magari ci dava anche qualche sberla.
Un parroco per Cassino
La chiesa risale al 1400 mi sembra, quando sono arrivata era fatta solo di mattoni, non era
stuccata e si aveva paura anche ad entrare, era un po' lasciata a se stessa perché non c'era un
parroco fisso che se ne potesse curare. Quando sono arrivata io, Cassino non aveva un parroco
suo, li mandavano da altre parrocchie e dicevano la messa solo la domenica; io in sessanta
anni ho visto sei diversi parroci, uno era di Ponte Sesto, uno di Rozzano perché il comune è lo
stesso ma la parrocchia è diversa poi invece la popolazione è aumentata hanno nominato un
parroco fisso solo per Cassino: il primo è arrivato nel 50-55 si chiamava Don Franco, era
bravissimo: andava in tutte le chiese in difficoltà per risollevarle, lavorava tutto il giorno, ha
messo a posto tutto bene, ha dato proprio una svolta alla parrocchia. Poi il vescovo lo ha
mandato in un altro posto dove c'era bisogno di lui e allora è arrivato Don Luigi, anche questo
parroco è bravissimo e tiene la chiesa molto bene.
Vita da contadini
Le persone a Rozzano facevano la vita dei contadini, lavoravano sempre, c'era solo la festa
annuale quando ammazzavano il maiale, quando arrivavano le mondine che venivano dalla
bassa perché non bastavano le donne di qui. E quando arrivavano le mondine per i giovanotti
era una pacchia; a settembre arrivavano anche i taglia riso sempre dal lodigiano. La vita delle
donne era quella delle monda riso, una vita dura, che durava solo un mese e mezzo, il padrone
poi dava loro i bollini che oggi sono serviti per ottenere la pensione.
Per la maggior parte la gente lavorava in campagna come contadini. Mi ricordo che mia nonna
e mia madre partivano per la campagna prestissimo e d'inverno quando era buio e c'era la
nebbia, per farsi vedere sulla strada andando a piedi, alzavano la gonna per farsi vedere
meglio a distanza con il biancore della sottana e si mettevano tutte in fila una dietro l'altra
seguendo quel biancore.
Oltre alla vita nei campi, la filatura era l'unica vera realtà diversa dalla campagna.
Un Rozzanese doc al Palasciun
Io sono proprio di Rozzano, ho settanta anni e una volta tutti erano nati a Rozzano, oggi la
gente si stupisce a vedere la mia carta di identità!
Qui eravamo pochi era una piccola comunità, io vivevo in quello che chiamavano il "Palasciun".
Il mio palazzo era stato costruito nel ‘31 da quelli della filanda, io ho avuto la fortuna di vivere
lì e i proprietari erano francesi e avevano fatto già i primi appartamenti di Rozzano con l'acqua,
la luce eccetera.
I miei andavano a lavorare Milano, il lavoro in città era basato tutto sulla meccanica, c'era il
fascismo all'epoca, c'era la Pirelli che già cominciava a fare qualcosa. Alcuni andavano ancora a
lavorare alla filanda della seta qui di Rozzano e mio nonno mi raccontava che c'erano tante
persone che venivano anche da Lachiarella.
Il lavoro in cascina
Il lavoro era molto intenso, si arava con i buoi ai primi tempi, poi sono arrivati i trattori e mio
marito è stato fra i primi ad avere il famoso Landini che era una delle primissime marche di
trattori di quel tempo.
L'azienda è rimasta attiva fino al ‘73 mi pare, poi hanno cominciato a chiederci il terreno per
costruire dove c'è il villaggio Iacp, lì erano tutte marcite per l'erba del bestiame, poi c'erano i
prati per fare il fieno: il "maggengo" a maggio, lo "stano" in autunno, si riempiva tutto lo
spazio dove oggi c'è la biblioteca; nel prato grande davanti all'entrata c'era il canale con anche
l'abbeveratoio per le bestie, c'era anche il mulino dall'altra parte della casa padronale.
C'era il riso, si faceva anche il trapianto del riso, e poi arrivavano le mondine che lo pulivano, si
facevano dei laghetti dove si metteva il riso per il trapianto, e poi con la pila (il mulino) si
brillava il riso ma non molto perché a noi allora piaceva non troppo brillato.
Presso l'azienda c'era anche il fabbro e il sellatore, c'erano i braccianti e c'erano le mondine
che venivano da San Colombano, dove c'erano i granai facevamo i dormitori delle mondine,
alle quali davamo da mangiare per circa quaranta giorni. C'era fra loro una che faceva la
cuoca, noi fornivamo la roba e c'era un gran pentolone di rame nel quale facevano il
minestrone, oppure la polenta e si cucinava vicino alle baste dei maiali. Quando le mondine
che "erano di via" non erano molto ben volute dai nostri che dicevano che venivano a portar
via il lavoro ma avevamo bisogno di più mano d'opera che non avevamo.
Mia suocera fece nel ‘30 il viale di tigli che c'è ancora qui nella corte grande nel prato della
biblioteca. Nella corte piccola invece c'era l'aia che si usava come essicatoio per il raccolto di
granoturco dei contadini ossia per le quote di materiale che i contadini potevano tenere per
loro stessi da contratto, allora si puliva e batteva a mano.
C'era il camapagnom, i bifolchi che guidavano i buoi; i cavallanti che guidavano i cavalli e il
capocavallante che guidava le carrozze; il camparo che era addetto alle acque e pulire le
ringhiere dei fossi che dovevano essere sempre puliti; il capo mungitore e tutti vivevano nelle
case qui intorno e per contratto avevano la casa, una parte dei prodotti, oltre al salario. Noi
eravamo affittuari, proprietari-affittuari delle "cose vive e morte", c'erano tante case dei
contadini e io tenevo la contabilità degli affitti del Zanoletti perché il marchese viveva a Milano.
C'erano diciotto famiglie che stavano nelle case vicino alla chiesa e intorno alla nostra cascina,
queste case le chiamavamo "I tir dei paesan" oggi ci sono ancora e sono state riadattate.
Avevamo anche la servitù: c'era il cuoco specie in tempo di guerra, una donna che lavava la
biancheria e altri.
C'era allora molto contatto fra le persone, i contadini ci volevano bene, io aiutavo le donne
quando nascevano i bambini oppure se una si ammalava; tant'è che mio figlio era sempre in
giro a mangiare nelle case dei contadini. Avevamo anche l'autista con la sua famiglia,
l'ortolano eccetera. Le donne lavoravano in campagna perché quando c'era poco da fare si
doveva togliere i sassi dai campi e i figli li tenevano le nonne oppure andavano all'asilo.
Dall'alba al tramonto
Io abitavo in questa corte, mio papà faceva il fattore e ha voluto stare qui anche quando hanno
costruito le case moderne, noi non avevamo né acqua né niente, nelle nuove case avevano
l'acqua potabile e il gabinetto, noi non avevamo queste comodità ma vivevamo qui
In campagna la gente non aveva soldi ma, anche nel tempo di guerra, almeno da mangiare ce
l'avevano; sgobbavano come i matti per fare il raccolto e tutti avevano un maiale, qualche
gallina, l'orto e si arrabattavano così. Per noi c'era il latte, il pane giallo, il riso, qui vicino c'era
anche la pila dove brillavano il riso, lo chiamano il mulino ma è una pila. Per quelli che
andavano a lavorare a Milano invece era dura, non c'era niente.
La gente della campagna lavorava completamente a mano facevano tutto con i buoi e i cavalli
fino al ‘40-'45 e io che oggi ho settant'anni ne ho fatte di giornate dure.
I contadini vivevano con poco e lavoravano tantissimo: facevano il raccolto del mais tutto a
mano e lo portavano sull'aia, lo dovevano spelare tutto e poi con una macchia a vapore lo
sgranavano, lo facevano seccare e lo portavano a casa; lavoravano il terreno del principale e il
loro, gli davano infatti una pertica e mezza che dovevano lavorare la sera quando avevano
finito gli altri lavori, se andava bene facevano dodici quintali, più ne facevano più stavano bene
perché potevano anche venderlo. Era dura! Lavoravano gli argini a mano, con il badile,
dall'alba al tramonto; d'inverno lavoravano dalle nove fino alle due e basta e poi a novembre
potavano le piante e usavano la legna per scaldarsi.
In cascina lavoravano venti famiglie, che erano salariati fissi, si chiamavano obbligati, facevano
un'annata intera, poi c'erano gli avventizi: quindici, venti lavoratori, tutte le settimane
venivano a lavorare saltuariamente quando c'era bisogno; io vedevo mio papà che li pagava la
domenica. Erano persone del paese ma venivano anche da fuori e pulivano tutte le rive dei
fossi con cui facevano lo strame per i buoi: qui in cascina c'era infatti l'allevamento dei manzi
giovani e quando nascevano i vitelli, vendevano i maschi mentre le femmine le tenevano per
fare il latte. C'erano cavalli e buoi che servivano per lavorare e la stalla faceva anche da
dormitorio: tanta gente che veniva a cercare la carità veniva qui, lasciava la carta d'identità da
mio padre e dormiva nel fienile.
Mio papà comandava le altre persone che lavoravano qui, era una grande azienda: c'erano
venti famiglie; quando facevano il raccolto, c'era una macchina tirata dai cavalli che tagliava il
frumento mentre per il riso venivano delle squadre di mietitori avventizi che lo tagliavano tutto
e lo portavano via con i carri; vicino al mulino c'era un portico e una trebbiatrice che, come la
pila, andava con la forza dell'acqua.
I soldi erano pochissimi, andavano a prelevare tutti i mesi dal principale: nel '39 prendevano
cento lire, chi andava a lavorare a Milano prendeva circa quattrocento lire al mese, alla fine
dell'anno riuscivano a mettere via qualche soldo, ma poi è arrivata la svalutazione e non
valevano più niente, si sono trovati a mani vuote.
L'azienda era autosufficiente, si faceva i carri, c'era il falegname e il fabbro per ferrare i cavalli
e i buoi, facevano tutto loro: c'era un magazzino dove si facevano quei lavori tutti a mano.
Gli avventizi, dopo avere lavorato andavano a dormire nelle loro case, venivano da Moirago, le
mondine venivano quasi sempre da San Colombano al Lambro, facevano la stagione: tre
settimane e poi andavano a casa, dormivano nei granai che a maggio erano ancora vuoti
perché non c'era ancora il frumento e mettevano le brande. I mietitori a mezzogiorno
tornavano qui in cortile e si mangiava tutti insieme: c'era una specie di cuoco che faceva un
minestrone, mangiavo quello e poi basta, ritornavano a lavorare. C'erano le squadre che
facevano la barba ai fossi, c'erano tutte le rive pulite, adesso invece non fanno più niente,
quell'erba lì poi gli serviva per i buoi e per i manzi giovani, era proprio un'industria, erano
Questa cascina è stata attiva fino al ‘70 poi hanno cominciato a costruire il villaggio ma era già
cominciato il declino. In questa stalla c'erano duecento capi di bestiame, dopo il ‘70 ha
cominciato ad andare male, a non avere più bestie, il figlio ha mangiato fuori anche la casa, ha
venduto le bestie, dopo ha prelevato tutto il comune.
Il proprietario del terreno era il Marchese Zanoletti, fino su alla statale era tutto terreno
coltivato poi, quando le cose cominciavano ad andare male, l'ha venduto e hanno costruito un
gruppo di case che chiamano del Zanoletti.
Vie d'acqua e di terra
Allora la vita era piuttosto monotona; l'unica cosa che ha portato un po' di novità è stato il
periodo in cui hanno costruito la ferrovia ed è arrivato il Gamba de legn, che faceva Milano-
Pavia-S. Angelo e qualcosa ha portato anche il Naviglio che era una via di trasporto piuttosto
valida. I fabbricati vecchi della nostra zona per esempio erano costruiti con mattoni che erano
cotti a legna ma, al posto della calce, fra un mattone e l'altro ci mettevano l'argilla; la calce
era chiamata la "calcina da lago" e veniva dalle nostre montagne, nei pressi dei laghi ma
all'epoca prendere un cavallo e andare sul lago Maggiore per prendere cinque quintali di calce
era un'impresa. La cosa è cambiata quando hanno fatto il naviglio grande e questo che passa
da Rozzano: allora il naviglio grande caricava con una nave più di mille quintali, così anche se
impiegavano più tempo, le navi avevano dei carichi rilevanti.
A Rozzano l'industria non si è sviluppata grazie al Naviglio semmai sviluppata per il Gamba di
legno che trasportava le merci. Il nome Gamba di legno viene dal fatto che le due ruote in
linea su un lato erano collegate da una trave di legno.
Insieme nella stalla
C'erano le famiglie divise nelle diverse cascine tutte sparse. La gente viveva in cascina che era
come una grande famiglia, specialmente durante l'inverno le persone si trovavano nelle stalle a
chiacchierare perché erano gli unici posti riscaldati gratis et amoris dei; le donne magari
cucivano o si giocava a carte; c'era un'amicizia più profonda più sentita, prima c'era un diverso
"volersi bene", se qualcuno faceva tardi al lavoro si andava a casa sua a vedere cosa era
successo. In Rozzano nuova oggi se io passeggio non c'è nessuno che mi saluta, per me a
Rozzano sono tutti forestieri. Il riscaldamento era a legna ma ce n'era poca e serviva per
cucinare e allora la sera, tutti nelle stalle a passare la serata! Prima le stalle era sigillate
perché si pensava che le bestie dovessero stare in un clima caldo umido per poter dare il latte.
Questo aveva portato anche delle malattie, anche se il più delle volte le malattie contratte
dagli uomini erano legate all'alimentazione.
C'era anche la "stalletta delle donne", un locale collegato con le stalle in modo che d'inverno
rimanesse caldo e lì le donne andavano a tessere il lino, a filare, a cucire perché allora era
un'impresa avere la camicia da cambiare; lavoravano anche il lino, il procedimento era tutto a
mano con la macerazione nell'acqua morta, alla macerazione nelle spine, che erano tavolette
con dei chiodi conficcati per pulire i fili puri dai fili brutti. Era tutto lavoro serale che sia
aggiungeva al lavoro della giornata.
La casa delle botole
Io sono nato a Rozzano, da padre pavese e da madre di Rozzano da tre generazioni i quali
abitavano nella casa detta delle "botole", appena dietro la chiesa di Rozzano vecchia di S.
Ambrogio. Rozzano era infatti sede del corpo di guardia del castello visconteo di Cassino e al
Bissone c'era il cambio dei cavalli, proprio dove oggi c'è un chiosco della frutta, c'era un arco
con il simbolo dei Visconti, con lo stallazzo per il cambio dei cavalli che da Milano si fermavano
per andare a Motta. La chiamavano dunque Casa delle Botole perché ancora oggi si vedono i
falsi piani.
Rozzano era divisa fra Persichetto, Gambarone, Ferrabue e Cassino Scanasio oltre a Rozzano
Vecchia; poi c'era la zona della Filatura, e poi c'è il Bissoncello che è una parte della stessa età
del Castello dei Visconti, dai quali vengono i Modrone e il conte Filippo. Il paesaggio era tutto
campestre, c'erano diversi gruppi di cascine che però erano lontane le une dalle altre: da
Ferrabue per Rozzano c'era solo la strada podestà dal Dosso, da Quinto Stampi ci voleva più di
un'ora portandosi da mangiare, per attraversare il paese di oggi da Rozzano a Ponte Sesto ci
voleva una giornata perché era tutta campagna e fossi, si partiva con la merenda.; se nevicava
si stava a casa da scuola perché era impossibile. Il trasporto del malato era fatto col calesse
comunque tutti quelli del paese ci si incontrava solo nelle sagre. Poi con le prime macchine è
cambiato un po', il Pessina che era l'unico che aveva la macchina faceva servizio pubblico.
Tredici ore di lavoro al giorno
Siamo arrivati nel '43, qui era tutto risaie, grano turco, frumento e la cascina, la chiesa e la
scuola con le elementari, il paesaggio era tutto lì.
C'era una cascina di Franchi Maggi e aveva Stabilini come fittabile, eravamo quasi cento
persone e io ho lavorato lì fino a quando sono andato a militare.
Il lavoro era pesante, i trattori erano pochissimi e pesanti quindi affondavano nelle risaie e
bisognava fare tutto a mano e con i buoi, poi c'erano le mondine e dopo venivano gli uomini
che tagliavano tutto a mano il riso, e noi caricavamo tutto e lo battevamo sul cortile con i carri
e nella corte si facevano i cumuli e i pagliai, nel caso del grano.
Le vacanze erano d'inverno perché d'estate si lavorava fino a tredici ore e ognuno aveva
sempre qualcosa da fare: chi raccoglieva il grano, chi falciava il fieno e l'erba per dare da
mangiare ai buoi e agli altri animali. Tante volte, quando c'era il grano sull'aia che non doveva
rimanere troppo all'umidità, si lavorava tutto il giorno poi si arrivava la sera a casa a mangiare
qualche cosa e poi si usciva di nuovo per spostare il grano dall'aia e portarlo in posti più adatti;
di notte si lavorava o con la luna se c'era oppure in molti campi anche con i lampioni con la
luce elettrica. E il giorno dopo si ricominciava per rimettere il grano sull'aia; d'estate spesso si
lavorava anche di domenica perché quando il padrone lo ordinava non c'era scampo!
Lavoravano tutti: i giovani le donne, oggi i giovani non vanno più in campagna.
La vecchia Rozzano
Sono arrivato a Rozzano nel 1932, avevo otto anni qui era tutto diverso, tutta campagna,
erano 1200 abitanti in tutto il comune. Dove abitavo io c'era una fontana straordinaria in cui in
estate l'acqua era sempre freschissima, anche in luglio, e invece durante l'inverno era tiepida e
quando c'era la monda del riso facevano anche più strada per venire a prenderla fino alla
nostra fontana.
A Rozzano c'erano la chiesa, il municipio, e le case dei paisan, per molto non hanno costruito
niente e poi hanno costruito più o meno tra gli anni Cinquanta e i Sessanta. Zanoletti, che era
proprietario, non vendeva nemmeno un filo d'erba perché non voleva distruggere la sua
proprietà ma poi gli eredi e i nipoti hanno un po' sperperato.
Una volta c'erano tante cascine e per esempio quella dei Ferrario era tutta privata, avevano
chiuso tutto la via e il resto. Mi ricordo quando facevo il chierichetto che li vedevo uscire con la
carrozza, le strade erano terribili al tempo, tutto fango e terra, d'inverno mettevano giù la
ghiaia, coprivano il terreno di ghiaia per i carri e ora di primavera era come cemento da quanti
carri erano passati. Allora si andava a piedi tutti; comprare la bicicletta era come oggi
comprare la macchina.
La nostra vita era sempre di lavoro tutta la settimana e poi la domenica mattina si andava a
dopo pranzo c'era la dottrina e poi si andava dalle suore, si vede nelle fotografie che le suore
erano sempre fra di noi e fra gli operai; tutti gli adulti andavano alla dottrina e poi gli uomini
andavano all'osteria e le donne, quando noi bambini andavamo dalle suore, stavano a casa.
A quei tempi si facevano le processioni, per esempio per la Madonnina vicino alla filatura, che
noi curavamo e poi il parroco il 2 giugno organizzava una gita per tutta la popolazione, ma
questo prima della guerra.
L'unico divertimento comunque era il sabato grasso che ci si poteva vestire per Carnevale.
Ricordo invece una grandissima festa in onore di un sacerdote figlio di operai che abbiamo
avuto qui e che poi è stato trasferito a Loreto, e proprio in occasione della sua partenza è stata
organizzata la festa, erano gli anni ‘50.
Poi nel ‘70-'80, anche con l'aiuto del sindaco Foglia, l'abbiamo fatta nuova Quinto! Facevamo le
feste del paese: quando c'era la festa del paese, c'era la cuccagna con i salami e i prosciutti; il
ciclismo per giovani corridori, qui avevamo proprio un circuito interno tutto nostro.
Oggi si fa ancora la festa del paese ma sono solo tre serate e la gente se può va a Milano, non
si esce più come una volta, la gente non va più fuori a mangiare. Una volta io, qui di fianco alla
mia trattoria dove c'è un bel piazzale, mettevo un tendone, come il circo Togni, un po' di tavoli
e sedie, anche dati grazie all'amministrazione comunale di allora e tra pesce, carne, una
damigiana di vino sul tavolo e tutti erano sempre contenti e allegri, oggi non si riesce più a
fare cose del genere, d'estate soprattutto.
A Foglia noi eravamo graditi perché facevamo delle cose per Quinto e facevamo stare le
persone nel luogo in cui vivevano. Era una festa unica: noi costruivamo addirittura il palco e
sono venuti tutti, Casadei, Voltolini, Mike Bongiorno, Nilla Pizzi, oggi non si può più anche
perché ci sono tutto intorno i palazzi e quindi disturberemmo. I nostri vecchi venivano qui a
fare festa; allora la gente stava più volentieri insieme a perdere tempo, praticamente eravamo
una compagnia unica perché tutti si conoscevano. Oggi ci sono solo paninoteche e discoteche e
la gente si rovina anche lo stomaco.
Un microcosmo autosufficiente
Qui c'erano tante cascine, in genere molto ben tenute per l'ambizione dell'agricoltore o del
fittavolo o del proprietario. Le cascine avevano diverse estensioni ce n'erano di mille,
millecinquecento pertiche milanesi (650 miglia circa) per esempio Cassino era molto grande,
Rozzano pure: vi abitavano venti, venticinque famiglie, il capo famiglia, la moglie e poi i
ragazzi che cominciavano subito in età scolare a lavorare, perché non potevano andare a
scuola per molto tempo.
La cascina di una volta era un microcosmo autosufficiente: avevano il mulino, la stalla delle
mucche, la stalla dei cavalli. Le frazioni avevano vita autonoma, erano collegate da stradine,
Rozzano come numero di abitanti era la maggiore.
Una cascina aveva dieci, quindici venti famiglie e tutte vivevano sul lavoro, c'era chi accudiva i
cavalli: il cavallante, chi i buoi: i bifolchi, poi c'erano i contadini addetti a tagliare l'erba, la
tagliavano a mano con una falce lunga e si mettevano in un campo in diagonale per non
tagliarsi i piedi, poi le donne passavano a rastrellare. I diserbanti non c'erano, c'era un'erba,
rumice o romice - che non chiamiamo il rimes - e in primavera le donne, prima che l'erba
iniziasse a crescere, andavano con un ferro a strappare perché se le bestie la mangiavano era
nociva, poi la ammucchiavano da una parte e la lasciavano seccare; era tutto lavoro a mano.
Nelle cascine c'erano poi dei bravissimi artigiani, il falegname per esempio faceva tutto: dalle
ruote dei carri ai carri stessi, alle riparazioni; anche il fabbro faceva tutto: dal ferrare i cavalli
alle inferriate.
Abitavano nelle cascine quasi tutti, il ritrovo era all'osteria la domenica altrimenti stavano con
le famiglie nell'ambito della cascina, certo non erano gli sconosciuti della porta accanto, si
aiutavano tutti, c'era solidarietà.
C'erano le famiglie che lavoravano dai proprietari e stavano lì parecchi anni; tipico era che a
san Martino, 11 novembre, se avevano delle offerte migliori presso qualche altra cascina, si
vedevano passare con le loro poche cose e si trasferivano qualche chilometro più in là o in un
altro comune dove potevano guadagnare qualche cosa di più.
Ogni cascina di una certa estensione avevano i portici fuori perché il raccolto non lo potevano
portare tutto in cascina direttamente, e poi c'erano i temporali, quindi lo ammucchiavano sotto
i portici. E poi ogni cascina aveva quello che si chiamava il capagnon che, con il fucile da
caccia, era delegato a sorvegliare che non venissero rubati i raccolti.
In paese c'era una grande industria che era la Filature de Chappe, nata alla fine dell'Ottocento,
ma era un paese prevalentemente agricolo, con i classici artigiani: lo stagnino, lo chiamavano
il magnan in dialetto, il fabbro, il falegname che però lavoravano prevalentemente per
l'agricoltura, vivevano nella cascina. Poi c'era mio papà che aveva un piccolo negozio, costruiva
e riparava le biciclette poi successivamente moto e macchine. Aveva la prima macchina da
noleggio perché nessuno aveva mezzi di trasporto, andavano in bicicletta o a piedi.
Lavorare a Milano
Il lavoro era nell'agricoltura oppure si andava a Milano dove c'era l'Officina Meani che facevano
rivestimenti dei mezzi pesanti, bisognava andare in città perché a Rozzano non c'erano
fabbriche, c'era solo la Filatura dove lavoravano tante persone.
Per andare a Milano c'era il Gamba de legn che faceva Pavia-Milano, penso sia stato tolto nel
'35, e dopo è arrivata la Sgea con gli autobus altrimenti si andava in bicicletta. Io avevo una
bici da donna attaccata con due chiodi che avevo aggiustato io perché si era rotta.
Traslochi a San Martino
Io sono nato in una cascina appena fuori dalla Rozzano vecchia, che adesso stanno
ristrutturando, quando ancora non c'era niente. Nel 1924 qui era solo un comune agricolo.
C'era la Filature de Chappe che adesso non c'è più, c'era un buon numero che lavoravano in
quella fabbrica che venivano anche da altri paesi: Lachiarella, Binasco.
Ma gli altri che vivevano in campagna erano mal ridotti, in questa cascina (quella della
biblioteca di Rozzano) per esempio c'era il posto delle mucche e quello per i cavalli ma le case
dove abitavano le persone erano meno belle di questi posti, perché i proprietari dei terreni
tenevano più alle loro bestie che non alle persone che lavoravano nelle cascine. Erano sfruttati
al massimo, tanto è vero che i lavoratori della terra, i braccianti, non i contadini in proprio,
erano i peggio pagati ma anche quelli che lavoravano di più. La vita era proprio scandita dal
Gli addetti ai cavalli, per esempio, anche la domenica dovevano venire ad accudirli, gli davano
da bere e da mangiare, li facevano uscire dalle stalle. Per farli bere riempivano con una pompa
a mano un lavello d'acqua; le mucche erano un centinaio, una mucca beveva al giorno cinque,
sei litri di acqua, quindi dovevano lavorare tanto. Erano pagati poco, non avevano ferie e
festività, degli orari poi non parliamo. e in più quando andavano in pensione c'era un'entrata
misera per quelli che lavoravano la campagna allora.
I braccianti alla fine dell'anno potevano essere licenziati o confermati. Il giorno di San Martino,
11 settembre, avvenivano molti traslochi, quelli che andavano e quelli che arrivavano perché
allora non esisteva lo statuto dei lavoratori. Il padrone della cascina in agosto quando si
rifaceva l'accordo poteva dire che non li voleva più. L'anno lavorativo cominciava l'11
novembre, così si doveva trovare un altro posto portando via tutte le cose, comprese galline e
maiali se c'erano. in alcuni casi invece era lo stesso bracciante che trovava un posto migliore e
Qui nella maggior parte della campagna lavoravano il mais, il riso, il frumento e poi c'era tanto
foraggio per le mucche, si lavorava con gli animali perché i trattori c'erano ma non come
adesso, si usavano solo per l'aratura mentre per il trasporto si usavano ancora i cavalli.
La vita nelle cascine era così: c'era l'acqua potabile ma era tutta a pompa a mano, era raro, se
non nelle case della filature, avere i servizi e l'acqua corrente: si dovevano arrangiare.
A Rozzano le cascine erano date in affitto a agricoltori, per esempio questa era degli Zanoletti
che erano nelle acciaierie, ma la conduzione era data a un agricoltore che pagava l'affitto, la
gestiva autonomamente. In alcune però il proprietario curava anche le sementi, la resa, l'uso
dei mezzi e degli animali, e poi avevano un agricoltore che curava il lavoro, ma era raro.
La svolta della tangenziale
Il grande cambiamento è stato la costruzione della tangenziale: Rozzano a un certo punto è
stata attraversata da questa grande via di traffico che ha unito tutto l'hinterland milanese in un
attimo. Credo l'abbiano costruita negli anni Settanta, all'inizio. Ha consentito di raggiungere
facilmente tutte le zone; certo, c'erano anche prima delle stradine ma erano molto meno
comode e mal tenute.
Rozzano si ingrandisce
Certamente l'immigrazione ha portato una ventata di nuovo, in certi casi non è stata vista
bene perché ha rotto equilibri consolidati, modi di pensare diversi, ma anche malavita diversa;
è stata positiva da una parte ma ci sono stati anche degli svantaggi. C'è stato uno sviluppo
troppo disordinato quindi ci sono state delle frizioni. L'immigrazione ha portato un aumento
della popolazione enorme, Rozzano faceva 2500 abitanti, quasi tutti nelle cascine, adesso
siamo 40000. Negli anni 60 sono state costruite le case popolari, poi c'è stato il terremoto del
Belice e quindi molti sfollati sono stati ospitati nelle case non ancora finite. Poi piano piano si è
aggiustato tutto, certamente lo sviluppo c'è stato anche grazie a loro.
Una crescita rapida
Rozzano era tutta risaie e attività agricole, cascine anche perché qui erano proprietari di tutta
Rozzano quattro o cinque persone: gli Zanoletti, i Ferrario, i Guardamagna a Quinto e quelle
società che facevano capo al notaio Alberici.
La Rozzano degli anni ‘70 è quella che conosco io, che oggi ho sessantadue anni, c'era il
periodo della trasmigrazione biblica sia dal Sud che anche da Milano città, c'era stata
l'imposizione da parte di alcuni sindaci della città di rigettare un certo tipo di popolazione fuori
verso Rozzano. Quindi in quel periodo Rozzano da poche migliaia di abitanti comincia a
crescere a dismisura, era tutto un unico cantiere, ricordo quelli delle case popolari: c'erano a
Rozzano circa seimila appartamenti, oggi in ogni appartamento ci sono due persone ma allora
erano minimo quattro, sei fino a dieci persone.
Era così sia per gli immigrati del sud che i milanesi di alcune fasce sociali mediamente medio
basse; c'erano anche quelli che occupavano gli appartamenti e non rispettavano le regole, era
il periodo delle grandi occupazioni. Per questi motivi il comune ha dovuto correre alla
costruzione degli edifici per servire tutte le persone che giovani e con prole venivano qui, c'era
un periodo che si inaugurava una scuola alla settimana, una festa continua.
Così il paesaggio è cambiato perché prima erano tutte e sole cascine, oggi si stanno
ristrutturando per esempio la Cascina Torriggio per costruire villette e altri insediamenti, altre
cascine per esempio Ferrabue è stata spazzata via dagli insediamenti delle case popolari.
Quelle che funzionano ancora oggi sono quelle più esterne rispetto al centro nuovo. La svolta
sono stati gli anni ‘60 che nei cantieri edili davano lavoro a tutti quelli che venivano dal sud e
dal nord limitrofo. I palazzi crescevano come funghi, Rozzano era stato scelto da polmone di
abitazione per chi lavorava a Milano, Milano si espandeva e aveva bisogno di persone e spazio.
Era un periodo di grande creatività, di grandi cambiamenti ma anche di incertezza perché
veniva a contatto anche gente diversa, con culture diverse, con l'arrivo anche di persone non
buone con un po' di delinquenza e un po' di droga.
Comunque questo periodo ebbe un'ottima regia fatta dal sindaco Giovanni Foglia tanto che si
dice che Rozzano è la città del Foglia, poiché lui cominciò a acquisire grandi estensioni dai
diversi proprietari terrieri avendo grande attenzione per la costruzione del verde attrezzato.
poco meno di un quarto della superficie di Rozzano è di proprietà del comune con il verde.
Come si viveva prima non andava male malgrado il coacervo di persone diverse, ma nelle
frazioni l'inserimento delle nuove persone era più semplice si sono formati dei nuovi gruppi, e
non si viveva male, il comune dava in abbondanza servizi perché la gente si acculturasse,
anche se c'è stata solo questa biblioteca intercomunale nella vecchia cascina dei Zanoletti.
Contemporaneamente cresceva anche la residenza privata, c'erano quelli che si prendevano un
pezzo di terra e facevano la loro villetta, oppure i costruttori che ai margini delle case popolari
costruivano delle abitazioni; perché non bisogna dimenticare che in quegli anni a Rozzano non
c'era ancora un piano regolatore. Il comune decideva delle percentuali di massima con i vari
costruttori e proprietari e ognuno faceva poi come riusciva: Rozzano in dieci anni arriva da
duemila abitanti a quarantamila abitanti, una cosa impressionante!
Source: http://www.cascinagrande.it/storia%20locale/rozzano%20memorie.pdf
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