usa, quell'uom di multiforme ingegnoDimmi, che molto errò, poich'ebbe a terraGittate d'Ilïòn le sacre torri;Che città vide molte, e delle gentiL'indol conobbe; che sovr'esso il mare- Molti dentro del cor sofferse affanni,Mentre a guardar la cara vita intende,E i suoi compagni a ricondur: ma in-darnoRicondur desïava i suoi compagni,Ché delle colpe lor tutti periro.Stolti! che osa-ro vïolare i sacriAl Sole Iperïon candidi buoiCon empio dente, ed irritâro il nume,Che del ritorno il dì lor non addusse.Deh! parte almen di sì ammirande coseNarra anco a noi, di Giove figlia e diva.Già tutti i Greci, che la nera ParcaRapiti non avea, ne' loro alber-ghiFuor dell'arme sedeano e fuor dell'onde;Sol dal suo regno e dalla casta donnaRimanea lungi Ulisse: il riteneaNel cavo sen di solitarie grotteLa bella venera-bile Calipso,Che unirsi a lui di maritali nodi-Bramava pur, ninfa quantunque e diva.E poi-ché giunse al fin, volvendo gli anni,La destinata dagli dèi stagioneDel suo ritorno, in Itaca, novelleTra i fidi amici ancor pene durava.Tutti pietà ne risentìan gli eterni,Salvo Nettuno, in cui l'antico sdegnoPrima non si stancò, che alla sua terraVenuto fosse il pellegrino illustre.Ma del mondo ai confini e alla remotaGente degli Etïòpi (in duo divisa,Ver cui quinci il sorgente ed il cadente-Sole gli obbliqui rai quindi saetta)Nettun condotto a un ecatombe s'eraDi pingui tori e di montoni; ed iviRallegrava i pensieri, a mensa assiso.In questo mezzo gli altri dèi raccoltiNella gran reggia dell'olimpio Gio-veStavansi. E primo a favellar tra loroFu degli uomini il padre e de' celesti,Che il bello Egisto rimembrava, a cuiTolto avea di sua man la vita Oreste,L'inclito figlio del più vecchio Atride.™Poh!∫ disse Giove, ™incolperà